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giovedì, Novembre 21, 2024
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Viaggiare, lavorando (e viceversa) – Francesco Paciola

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Salve amici di “Soft chat interview”. Oggi intervistiamo per voi Francesco Paciola, direttore creativo calabrese, cresciuto a Cosenza ed emigrato prima a Roma per poi viaggiare in tutta Europa: noto come Franky Manocchio.

Attualmente è fermo ad Amburgo ma non sappiamo bene quanto tempo resterà.

 

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Chi è Franky Manocchio?

Franky Manocchio è un “personaggio-brand” misto tra fantasia e reale, diciamo un alias, un AKA, un quello che ve pare.

Nasce casualmente dalla combinazione di due fattori: Franky è “l’americanizzazione” del mio nome, mia madre da piccolo mi chiamava così a “mò di sfottò”, Manocchio è il nome dato dalle persone che compravano le t-shirt (con il marchio e le grafiche Manocchio ndr.), di conseguenza hanno iniziato a chiamarmi anche me che le disegnavo, credo più che altro per necessità di identificarmi. Involontariamente da persona sono diventato “personaggio”. Tutto è nato così senza volerlo.

 

I tuoi studi, le tue “influenze artistiche” (che iniziano in famiglia). Gli autori che porti nel cuore. 

Ho sempre odiato studiare, sincero, ho studiato (E studio) sempre solo quello che mi interessava veramente. Di sicuro ho sempre amato disegnare, il contatto della mina con il foglio bianco, i colori, i pennarelli. Ricordo che alle medie aspettavo le ore di educazione artistica e educazione tecnica con ansia. Gli altri giorni potevo fare anche “sega” a scuola, ma quando c’erano materie artistiche di mezzo, ore 8:00 ero già davanti al cancello della scuola. Poi Liceo Artistico, con le materie di Ornato, Figura, Modellato, Storia dell’Arte (si usa ancora l’Argan come testo?), era un flippare continuo. Inutile dire che seguivo con smodato interesse tutto questo filone di materie mentre snobbavo le altre. Cioè mi piaceva, ero stimolato, non sapevo dove mi avrebbe portato questo percorso, però lo seguivo e basta, una fede. Poi dopo il diploma capii perfettamente quale era la strada e mi iscrissi allo IED a Roma. Un bel periodo veramente.

Autori o artisti che “porto con me”, in verità non ne ho uno in particolare mi piace su tutto la corrente Futurista e qualche gradino più giù la POP ART.

Ma se dovessi farti dei nomi, così a bruciapelo ti direi Fortunato Depero ed Erberto Carboni, quando vedo i manifesti Campari o Barilla capisco cosa è l’Arte. Questo per quello che riguarda il lato più artistico del nostro mestiere, ma ve ne sarebbero così tanti da fare di nomi, che ne so, Bodoni il primo vero Type Designer italiano, il genio di B R U N O M U N A R I, Neville Brody, Aldo Novarese, Milton Glaser, Armando Testa, Vabbè ho capito, mi fermo qui.

 

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Nel 1998 nasce  “LOGOTYPE – branding design boutique”, creazione del “vestito perfetto per un’azienda”.

Il Core business dello studio è la progettazione e realizzazione marchi, logotipi e Pack. Tra i servizi anche web design. Sei sempre e solo tu che ti occupi di tutto oppure c’è qualcuno che collabora con te? 

No, no assolutamente, io curo gran parte della direzione creativa dei progetti, poi di volta in volta mi avvalgo di figure che siano il più vicino possibile alle esigenze e allo stile scelto per quel determinato cliente. Mi piace sempre conoscere e confrontarmi con professionisti che operano nel settore della comunicazione. Anche se per quanto riguarda il discorso dell’immagine corporativa è una cosa che seguo gran parte delle volte in prima persona. Si è una droga.

 

Sai perché ho deciso di intervistarti? Perché lavori viaggiando (o viaggi lavorando?). Esporti, riporti, diluisci, combini. Un buon metodo per stimolare la creatività. Credo il migliore. Cosa ti porta, in realtà, a cambiare spesso ambiente?

Senza ombra di dubbio la routine. La routine mi uccide, è una cosa più forte di me. E ti sono sincero, invidio tutti quelli che riescono ad essere sistematici anche a distanza di anni. Questo mi porta spesso a cambiare spesso ambienti e situazioni. Però è un’ottima scusa per vedere cosa fanno “gli altri”. Come si muovono, che formazione culturale hanno. Perché una font, un colore, un tipo di pack. Il nostro lavoro è fatto anche in gran parte di curiosità. La curiosità crea stimolo, smuove, secondo me è importante essere curiosi. La risposta è entrambi, approfitto del mio lavoro per viaggiare e viceversa.

 

Nella domanda precedente scherzavo. Ti intervisto in quanto sei un ottimo creativo e graphic designer. Osservo i tuoi lavoro da anni e non ti manca una certa dote di simpatia, ironia, anticonformismo.

Allora, tanto per cominciare quando dici “un ottimo creativo” prenditi le responsabilità di quello che dici. Io non l’ho mai detto (risate)…

La simpatia aiuta sempre, aiuta sempre a far arrivare il messaggio in un modo indiretto, in seconda battuta, ma arriva. Diciamo che quelli sui social sono come dire più giochi di stile dedicati a strappare un sorriso alle persone. Sorridere fa bene, mette di buon umore, aiuta ad avere una propensione positiva alla vita, alle cose. Dovremmo sorridere di più secondo me, oggi siamo un po’ tutti incazzati con qualcuno o qualcosa. Non è uno dei migliori periodi, Ok! Ma lamentarsi non fa altro che peggiorarci. Peggiora noi e il mondo che ci sta intorno.

Quando studiavo allo IED mi sentivo dire spesso che avevo “una mano felice” e io rispondevo sempre: scusa, com’è “una mano triste?”.

Credo sia un’attitudine. Non saprei dirti, non è una cosa che cerco, mi viene naturale, mi piace. È come spiegarti come si fa ad essere anticonformisti? Boh, uno mica lo sa che è anticonformista, magari se ne accorge perché non è conformista, ma essendo in un modo non sai che quello è anticonformismo. Ma se lo dici tu, mi fido.

 

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Quanta influenza ha avuto nella tua vita e nel tuo lavoro il tuo “nomadismo”?

FON DA MEN TA LE! Inutile nasconderlo, viaggiare apre la mente, ci sta ben poco da fare. Fa scattare tutta una serie di processi, di sensazioni, emozioni che magari fino a quel momento non avresti pensato. Poi ci sono luoghi che ti ispirano di più, altri meno, però ogni posto in cui vai ha sempre qualcosa da raccontarti, bisogna avere orecchio per ascoltarlo, poi questo si riflette anche nella tua professione. Ti arricchisce, ti valorizza come persona, ti aiuta a pensare in modo diverso (inconsciamente). L’unico problema del “nomadismo” è che se poi ci prendi gusto è difficile smettere. Però anche vero che prima o poi bisogna mettere radici da qualche parte. Ma forse forse anche No. Vedremo in futuro, chi lo può dire.

 

E Manocchio? Da dove viene fuori? Quando?

Il marchio Manocchio fece la sua prima comparsa il 9 Agosto 2002, data dell’inaugurazione dello studio. Il marchio in verità fu progettato per identificare Logotype Design (oggi Paciola Design ndr.). Di fatto rappresenta gli elementi base della comunicazione visiva. La mano, quindi il disegno, il tatto, la creazione (old school). E l’occhio, ovvero lo “scanner”, la vista, l’osservare. Tanto è che le prime t-shirt recavano la scritta Logotype Design e non Manocchio. Il giorno dell’inaugurazione, pensammo bene di regalarne un centinaio come gadget. Andarono a ruba, vabbè so gratuite è normale ci dicemmo. Ma distanza di tempo la gente continuava a chiedere le t-shirt con la “manina”. Ne ristampammo altre 100 e dopo pochi giorni finirono di nuovo. Ok! È un gadget gratuito, ci ripetemmo. Così decidemmo di andare in fiera a venderle (quell’anno 2000 pezzi), addirittura senza nome per vedere cosa accadesse. Il risultato fu che la gente usava tutte le declinazioni della parola “mano” e quindi prima che prendesse un’altra piega feci la cosa più semplice. Guardai il marchio e da qui nacque il naming Manocchio.

 

Ho notato molte tavole da snowboard nel tuo profilo. Se non sbaglio alcune sono fatte proprio da te! 

Ho scoperto queste malattia per lo Snowboard qualche anno fa. Porta dipendenza sai? Si è una collaborazione che va avanti da un paio di anni insieme a un amico di Roma che fa Wrapping, Gabriele (Bichiri nda.). Ex collega e compagno di corso allo IED di Roma. Sono stati tra i primi a farlo nel centro sud Italia. Oggi trovi “grafiche già impacchettate” nei più disparati Brico. Il rischio è che una casa, un’auto o una tavola da snow sia uguale ad un’altra, mentre con la customizzazione è tutto un altro discorso. È tua, punto.

Il bello della grafica è che la puoi “spalmare” dappertutto, dalle passioni a tutti quegli oggetti che quotidianamente ti accompagnano in tutto quello che fai. Anzi ne approfitto per fargli pubblicità, Gabriè poi ti mando numero di Conto Corrente, wrapitup.it

 

Cosa ti piace nel tuo lavoro e cosa, invece, non ti piace affatto?

Del mio lavoro mi piace quasi tutto, mi piace svegliarmi la mattina con la voglia di fare, disegnare, accendere il computer, creare, sporcarmi le mani con i pennarelli, pennelli, colori, ma anche bestemmiare quando qualcosa non va per il verso giusto. Non è una professione in cui fila sempre tutto liscio, però il più delle volte mi trovo a fare qualcosa che mi piace.

Quando metto mano su una nuova commessa lavorativa, mi emoziono, si mi emoziono. Sento allo stesso tempo il peso della responsabilità (ci sta sempre un cliente da servire non lo dimentichiamo), l’adrenalina del creare, insomma per farla breve quel misto di emozioni che ti rendono vivo durante tutta la fase del progetto. Sono fortunato? Non lo so, ma non è che uno si alza la mattina e grida al mondo “sono un grafico e fare il grafico fa figo” e le commesse lavorative sono lì che aspettano te. La gente nemmeno immagina la lunga gavetta che ci sta dietro questa professione. Veramente tanta e tanta merda da spalare, soprattutto all’inizio. Non è semplice, credimi.

Cosa non mi piace? Non mi piace questo approccio del grafichetto italiano medio, sempre con il lamento in bocca, poco propenso al sacrificio, ad apprendere, che passa tutto il tempo sui social network e non aspetta altro che un collega, un’istituzione, una grossa azienda pubblichi qualcosa per dargli subito (a priori) addosso. Senza aver letto brief, obiettivi, posizionamento, senza sapere il perché e il per-come sia nato quel progetto o meglio logo. Ecco questo è un atteggiamento distruttivo a priori per chi in questo caso giudica. Sembra più un vizio che abbiamo appreso (poi da chi?) che una vero modo costruttivo di esporre una critica. Questo mi da veramente fastidio.

 

Perché ami il tuo lavoro? 

Beh è una passione innata, me la sono ritrovata piacevolmente “addosso”. Mio padre era professore di applicazioni tecniche presso l’industriale  (ora in pensione nda.), mentre mia madre era maestra di asilo nido (anche lei in pensione nda.) con spiccate doti di illustratrice. Mi piace pensare che io sia la conseguenza, il prodotto di qualcosa di tecnico e gestuale allo stesso momento. Una combinazione delle loro esperienze e delle loro professioni. Ma soprattutto mi piace pensare che sono un loro “prodotto”.

 

Che ruolo hanno avuto internet e i social network nel graphic design? Ci sono pareri molto contrastanti a riguardo.

Beh si, essenzialmente noi veniamo dalla carta, nasciamo come figura professionale in tipografia. Non lo so in tutta sincerità. Io credo che ognuno di noi debba muoversi a seconda di quello che si sente di fare. New media? New media! Carta? Carta! Però è anche vero che internet ha snellito molto il nostro lavoro. Negli anni 90 giravamo tutti con un lettore e una cartuccia Zip nello zaino, oggi premi invio ed il file sta nella posta del cliente o del fornitore anche a migliaia di chilometri di distanza. Questa è una comodità. Poi come mezzo per comunicare, beh è immediato no.

 

Progetti in corso?

Al momento sto lavorando su un nuovo brand, qui ad Amburgo. È una falsariga di quanto già prodotto in passato con Manocchio (t-shirt), meno street e urban e più (appunto) trasversale e meno dinamico. Si chiama Meine Perle (Clothing and Apparel), che per intenderci è il modo di apostrofare da parte degli amburghesi la propria città, come se un romano dicesse “core mio”. È in fase embrionale ma si muove bene. Mentre in Italia sto lavorando side by side con la Intertonno (alias Tonno Sardanelli), un cliente con il quale abbiamo stretto fin da subito ottimi rapporti. Ci siamo conosciuti e piaciuti quasi subito. Non capita spesso. È un lavoro interessante perché è un cliente di caratura nazionale in primis e poi abbiamo cominciato un discorso dal basso: restyling logo, packaging, campagne pubblicitarie e tutto il resto. Non credevo che una azienda del genere, di questo spessore, potesse darmi tanta libertà d’azione. Veramente figo come lavoro, stimolante.

 

Progetti per il futuro? 

Scrivere un libro, come uccidere un account e una enciclopedia dal titolo: “ma chi lo dice che il cliente ha sempre ragione?”. La prefazione spiega anche come avvelenare il nipote del cliente prima che ti rubi il lavoro e faccia fallire l’azienda dello zio (risate).

Scherzo, ma per dire che i progetti sono tutti in essere. C’ho molta carne sul fuoco nel presente…

 

Questa è la domanda d’obbligo in ogni intervista: cosa consigli agli amici di RDG?

Ecco, questo è la domanda che mi fai per buttarmi nell’arena e darmi in “in pasto ai leoni” (risate).

Convivono così tante anime in RDG che è difficile dare un consiglio. Ma se proprio devo, eccone due. Uno, li inviterei ad essere più riflessivi e più dentro il nostro mestiere con professionalità e passione. In fondo questo è una professione che si fa perché NOI GRAFICI abbiamo prima di tutto una funzione sociale e poi commerciale. Meno GraphicStar più “sociali” (e non social) e più utili.

Due, una cosa che leggo spesso è che ci tuteliamo poco quando iniziamo a lavorare su una commessa lavorativa. È un problema comune, però sarebbe meglio fare dei passi importanti prima di mettere mano su un lavoro. Ovvero, preventivo, approvazione con firma (è un documento legale che può valere in futuro), anticipo etc etc… lo so è difficile ma è l’unico modo per tutelarci da eventuali “guai” futuri. Meglio avere 10 clienti buoni e non 50 che ci provano. Non prendere tutto, ma fare selezione fin da subito.

 

Un consiglio per chi ha appena deciso di fare del graphic design il proprio lavoro?

Di sdoppiare fin da subito il proprio cervello in prima battuta. Ovvero distinguere i lavori commerciali che solitamente sono “il pane” per i Grafici da quelli sperimentali, che sono la massima espressione del proprio IO. Difficilmente le due cose confluiscono in un’unica direzione. Sarebbe il caso di sentirsi meno artisti quando si ha una committenza sulla quale lavorare. Nel primo caso non siamo “dei geni incompresi” bensì bisogna capire che se si opera in un mercato la giusta misura sarebbe un punto di incontro tra la nostra professionalità e le richieste del cliente. Nel secondo caso, possiamo esprimerci in proprio come vogliamo. Magari montare un progetto in cui il cliente siamo noi stessi così possiamo esprimerci al massimo delle nostre potenzialità.

Ad ogni modo, avvicinarsi a questo settore/campo con passione e dedizione, altrimenti si finisce a diventare il solito GRAPHIMINCHIA con un Mac tra le mani: deprimente.

 

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Di seguito una galleria di immagini! Buona visione!!!

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