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venerdì, Novembre 22, 2024
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Giulia “Zucchi”: fare la designer in Giappone

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Presentati al nostro pubblico e parlarci un po’ di te, dicci, chi sei per l’anagrafe? Ma soprattutto dicci di dove sei e dove vivi ora!

Allora, per l’anagrafe non esisto perché mi è scaduta la carta d’identità da mesi e non si può rifare ai consolati dei paesi non europei. Anche il passaporto sta per scadere: sono nel mezzo di un meltdown d’identità! Teoricamente però mi chiamo Giulia, ma a seconda del paese in cui vai mi chiamano Zucchi (contrazione di Zucchina) o Tsuki (contrazione di Tsukino).
Ho vissuto a Milano per 27 anni e 5 anni fa mi sono trasferita a Yokohama, in Giappone.

Cosa ti ha fatto maturare l’idea di trasferirti in Giappone? 
Mi sono trasferita nel 2014 dopo che avevo già passato 5 anni della mia vita a studiare la cultura e la lingua del paese. Una volta avuta la laurea e conseguito un master era ora di fare un salto di qualità nel mio uso della lingua.

io come molti italiani cresciuti a suon di manga abbiamo un’idea molto romantica del Giappone e ne siamo molto innamorati? Era così anche per te? È ancora amore?
Sì e no. Mi sono iscritta in università a 3 anni dalla maturità, durante i quali ho fatto tanti lavori per avvicinarmi pian piano a quello di web designer. In quegli anni la mia passione per i manga, tanto forte al liceo, si è affievolita fino a sparire, ma ho fatto un liceo linguistico e la curiosità di scoprire questa lingua mi ha portato a mollare il lavoro e rimettermi a studiare grazie ai soldi guadagnati. Ai tempi della scuola ero innamorata sì, ma una volta adulta il mio approccio è stato più da studiosa e linguista che da “otaku”.
È ancora amore? Ottima domanda. Ci sono molte cose che detesto, che mi danno fastidio e tante altre che apprezzo. Dopo più di 11 anni (e 5 nel paese) questa lingua è parte di me e anche alcuni atteggiamenti, quindi di certo non detesto questo paese, ma non ho più alcuna idea romantica, solo una visione più profonda di luci e ombre.

Quando hai lasciato l’Italia avevi già un lavoro o sei partita all’avanscoperta?
Insegnavo giapponese e italiano part time in Italia, mentre in Giappone non avevo nessun contratto.

Come ti sei organizzata? Conoscevi qualcuno? Hai vissuto i primi giorni in ostello? Come ti sei mossa appena arrivata?
Sono partita con il progetto di studiare la lingua per un anno, è stata la scuola a trovarmi una casa condivisa con giapponesi perché non ero mai stata a Yokohama e non conoscevo assolutamente nessuno. In meno di tre mesi dal mio arrivo ho dovuto trovare dei part time e per i primi 3 anni qui (uno alla scuola di lingua e due alla scuola di design) ho fatto contemporaneamente 3 part time e lezioni private a singoli in giro per la città per potermi mantenere.

Prima di trasferirti hai lavorato in altre città? Se sì: quanto hanno influito queste diverse città nel tuo percorso professionale?
Ho lavorato solo a Milano per 3 anni prima dell’università. All’epoca ero una web designer junior, adoravo il mio lavoro anche perché costruivo maldestramente siti web già dalla seconda liceo e il lavoro mi dava l’opportunità di concentrarmi sul design e lasciare il codice ad altri.
Quando ho deciso di stare più di un anno in Giappone, e dopo aver scoperto che come insegnante nessuno mi avrebbe mai fatto da sponsor per un visto di lavoro, ho pensato di tornare verso il percorso professionale che avevo maturato dopo il liceo. In questo senso penso che abbia influito.
Ero una web designer, sono diventata un’insegnante di lingua italiana e giapponese e una traduttrice e poi sono maturata come designer (non mi occupo più di web)… sì, pure io sono un po’ confusa quando devo spiegare chi sono.

Ci spieghi meglio la tua figura professionale? Quale sarebbe il tuo inquadramento?
Ecco, oltre a quanto detto sopra, specifichiamo cosa faccio ora. Perché sembra figo se dico che faccio la designer in Giappone, ma non è proprio così.
La mia compagnia non è un’agenzia specifica di design. Ha tre divisioni che non c’entrano nulla tra loro: una si occupa di insegne, poster, vetrine e simili, una gestisce una catena di negozi per il giardinaggio, la terza vende una tecnologia AI ideata da un mio collega. Io sono nel team di designer della prima divisione e una volta al mese faccio anche i poster e i volantini dei workshop all’interno dei nostri negozi. Il 5% di quello che faccio è mio originale (soprattutto design di vetrine), il 50% sono lavori in cui ricevo gli elementi grafici dal cliente e le misure dagli addetti ai lavori e mio è solo l’arrangiamento all’interno dello spazio dato, il rimanente è il materiale del cliente già pronto e solo da ridimensionare o adattare.

Con che tipo di clienti tratti?

Ho clienti che sono giapponesi, quindi sconosciuti in Italia, per lo più brand di moda, catene di ristorazione e marche di dolci; e poi molti clienti internazionali come Calvin Klein, diptyque, Tag Heuer, DIESEL, Borsalino, Tommy Hilfiger. Capisci quindi quando dico che solo una piccola parte del mio lavoro è design originale? Non sono io a decidere la nuova campagna promozionale di Calvin Klein e della Tag Heuer: magari!

Che tipo di studi hai fatto per arrivare a ricoprire questa posizione?
Un po’ di esperienza pregressa a parte, la maggior parte l’ho imparata in due anni in una scuola professionalizzante di design a Yokohama. Dopo 5 anni senza lavorare al design avevo bisogno di un refresh, di capire come fosse il design in questo paese (l’utilizzo dei colori ha sempre una connotazione culturale e con un sistema di scrittura diverso, l’utilizzo delle parole all’interno del design è particolare in Giappone) e anche di imparare la terminologia necessaria: ora il problema è che non so i nomi degli strumenti o dei menù di illustrator in altre lingue o quelli di altri elementi tipici del nostro lavoro.

Che differenza c’è nel tuo lavoro in Italia e in Giappone? Come viene percepito il mestiere del designer in Giappone?
Guarda, io non posso dire di sapere con esattezza come sia percepito in Italia, non lavorando come designer nel paese da ormai più di 10 anni.
Posso dire che il Giappone è un paese che ha una particolare attenzione per il design, che siano siti web, cose da stampare (c’è una parola in italiano?) o design d’interno. Anche perché ho la forte impressione che se una cosa non è ben curata visivamente, dato l’ammasso di gente, luci, colori e attività che stanno nel paese, non verrà mai notata. Devi spiccare nella folla se vuoi che il tuo locale o il tuo evento vengano prima di tutto notati e attirino clienti, e quindi guadagno. La parte di design spesso non è presa sotto gamba (ovviamente ci sono quelli del tipo “sagra della spigola sotto sale della penisola di Miura” che sbattono qualche foto e le informazioni su un volantino e tanti saluti) e il lavoro che viene fatto dal professionista è spesso tenuto in alta considerazione. Il “cugino” non c’è, e il più delle volte il cliente fa sapere di avere un dato budget e di voler rimanere entro quei parametri.
Oh, e anche quando un amico ti viene a chiedere se puoi fargli qualcosa specificano sempre che ti pagheranno e quanto possono darti.

Come viene invece retribuito il mestiere del designer in Giappone? ci sono dei benefici? O, comunque, conviene per qualche motivo?
Non saprei dirti come siano messi i free lance perché non ne conosco e noi stranieri senza visto di matrimonio con un nativo non possiamo avere il visto di lavoro lavorando come free lance a meno che, suppongo, non siamo dei designer famosi.
Il salario dipende dalla tua esperienza pregressa, dalla grandezza dell’azienda e da quanti straordinari fai. E’ risaputo che i designer in Giappone fanno una marea di straordinari (io no perché, appunto, la mia non è un’agenzia di design).
In particolare però non direi che ci sono particolari benefici. Voglio dire, se penso a qualcuno che non sa nemmeno la lingua, non trovo motivo per cui debba venire qui a fare il designer se non capisce nemmeno cosa vuole il cliente. Se la si conosce bene invece quantomeno penso sia gratificante sapere che la persona davanti a te non pensa che sia il computer a fare il lavoro.
Il discorso è diverso nel caso in cui si sia estremamente bravi in un dato campo: un amico di amici è tipo un pixel artist (o una cosa simile) particolarmente bravo, ma sembra che non sappia una parola di giapponese eppure lavora per un’azienda qui. Non ho idea di come viva l’ambiente di lavoro senza poter comunicare con nessun.

Secondo te che ruolo ha il posto in cui vivi nel tuo mestiere? 
Intendi il Giappone in generale? Beh, come detto prima, ogni paese ha delle particolarità per quel che riguarda il design: utilizzo dei colori per esempio, o arrangiamento delle parti scritte; non dimentichiamoci che qui usano due alfabeti sillabici, kanji e alfabeto latino, esistono casi in cui si legge da destra a sinistra e si scrive dall’alto verso il basso: tutti i magazine sono così per esempio.
Se invece intendi Yokohama… la mia città mi aiuta moltissimo a non diventare un gomitolo di stress e tensione. Lavorare a Tokyo è una vera sfida fisica e psicologica, non smetterò mai di ringraziare il destino che mi ha portato a vivere a Yokohama, quando arrivo in stazione ogni sera tiro un sospiro di sollievo, mi ricarico con una passeggiata al porto e il giorno dopo sono pronta a ricominciare l’odissea verso l’ufficio.

Ti senti a casa o ti manca l’Italia?
Dopo aver viaggiato tanto, sono convinta che la mia casa sono io stessa. Eventualmente anche dove sta la mia valigia. Quindi finché sto bene con la vita che faccio mi sento a casa.
Da quest’anno sono cambiate tante cose, quindi se devo risponderti con sincerità, no, non mi sento più a casa e ho infatti cominciato i preparativi per cambiare paese a fine Settembre.
L’italia non mi manca molto, la amo moltissimo, ma ho scoperto che adoro particolarmente vivere all’estero, ecco perchè non tornerò a vivere in Italia ma cambierò semplicemente paese di residenza.

Che consiglio vuoi dare ai nostri lettori che magari stanno pensando di andare a lavorare all’estero? Cosa consiglieresti a chi vuole seguire i tuoi passi?
Per chi vuole lavorare all’estero in generale consiglierei di informarsi bene se serve un visto o meno per lavorare e come ottenerlo. E poi di conoscere la lingua.
Per chi vuole venire qui invece darò il consiglio che ci venne dato dal mio professore di giapponese alla prima lezione del primo anno di università: siete ancora in tempo per ripensarci. Il Giappone è una grossa sfida, e non sto scherzando quando dico che nessuno di quelli che seguono fino infondo questa strada è una persona sana di mente, devi avere qualcosa di folle per fare tutto questo.

Oggi come vedi il tuo futuro?
Sono in un periodo di transizione, quindi mi riesce difficile riuscire a guardare più lontano di un paio di mesi. E’ possibile che il mio prossimo lavoro sia ancora una volta slegato dal design, ma il bello di saper fare più lavori è proprio che hai molte più possibilità di ricerca quindi non escludo che invece possa essere ancora designer, ma in un altro paese.

C’è qualcosa che avresti preferito ti avessero detto prima di andare a lavorare all’estero?
No, io no. Ero abbastanza preparata dopo anni di studio di questo paese e posso dire anche di essere stata fortunata perché non sono finita in un’azienda di stacanovisti e vecchi bacucchi ancora legati a molte usanze e convenzioni del vecchio modello di lavoro giapponese.

È mai successo qualcosa di davvero assurdo, qualche stranezza o qualche aneddoto che ti va di raccontarci?
Per la serie la madre degli scemi è incinta in tutti i paesi, questo è un aneddoto riguardante un cliente che detesto: è talmente scemo che non riesce a farti nemmeno pena, anche perché la sua scemenza la pago spesso sulla mia pelle!
Avevo “ereditato” questo cliente dalla precedente designer, quindi per imparare a gestire bene tutta la complicata trafila da seguire ho sempre fatto esattamente come era stato fatto fino a quel momento e non ho cambiato niente nella struttura dei file per i primi mesi. Un giorno quelli in tipografia mi chiedono di mettere le linee di taglio (ho googlato ma non so se è giusto: si chiamano così in italiano?) e creare l’avanzo di 3 mm necessario nei file cosa che la designer precedente non faceva mai. Lo faccio subito ma ci ripenso: “Non è che S. san mi viene a chiedere cosa sono queste linee? E’ talmente cretino…” faccio presente alla mia collega
“Ma và, S. san è del team di design” mi risponde lei (il cliente in questo caso è uno dei centri commerciali più grandi e famosi di tutta Tokyo).
S. san mi risponde un’ora dopo via mail: “Le etichette vanno bene così, ma perché sono più grandi? E cosa sono quelle linee che hai aggiunto?”.
E qui stendiamo un velo “peloso” perché si commenta da solo.

C’è qualche luogo comune che si è rivelato purtroppo vero?
Si sente spesso dire che i giapponesi hanno poche vacanze. E’ vero. O meglio, l’Italia ha 12 giorni di festa nazionale, mentre il Giappone ne ha 16, quindi potrebbe sembrare che in realtà un lavoratore giapponese stia a casa più di un italiano. La verità che pochi sanno è che nel sistema giapponese non esistono ferie e malattia, ma esistono quelli che io definisco “giorni di assenza pagata”.
Quando si prende un giorno non importa che sia per andare alle Hawaii o perchè siete legati al cesso col cagotto a spruzzo: prendete un giorno, punto, quale che sia il vostro problema. Non esiste l’INPS.
Bene, per il primo anno e mezzo dall’assunzione una persona ha diritto a 10 di questi giorni, ogni anno e mezzo ne acquisisci uno più o meno fino ad un massimo di 20 giorni dopo 6 anni e mezzo dall’assunzione. Io ne ho 11. Undici giorni in 12 mesi che tu sia malato o no sono una vera miseria. Ed ecco allora che pochi li prendono, quale che sia il loro stato di salute.

Cosa succede se state assenti per più giorni? Cominciano a non pagarvi i giorni che non fate.
Cosa succede se dovete essere ricoverati per un periodo più lungo? Da quel che ho visto, la gente si licenzia perdendo così il lavoro.

Un consiglio a caso per i nostri lettori?
Bevete tanta acqua e state all’ombra nelle ore più calde della giornata.

Siamo curiosi, ci dai qualche link dove poter vedere i tuoi lavori?
Vivo un momento in cui non ho tempo per fare alcuna versione web del mio portfolio, senza contare che non ho una connessione in casa. Posso solo lasciarti il link per il file del portfolio: https://drive.google.com/open?id=11YKej4h5ONcAXvwQcSpM-MuxmuLk5bCb
Grazie per il tuo tempo anzi domo arigatò!

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Lombardo Marco
Lombardo Marcohttp://wiredlayer.com
Marco lombardo è il fondatore di robadagrafici.net Si occupa di aiutare i marchi a crescere. Crea identità memorabili grazie a strategie che ne rafforzano l'identità. marcolombardo@wiredlayer.com info@robadagrafici.net
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